Artykuły

Della Cina fiabesca di Carlo Gozzi a un Socrate di strada di Diderot

La regia di Giancarlo Cobelli immette la favola dell'irridutibile avversario di Goldoni in una torbida atmosfera fatiscente e pansessualistica - Aggraziata riduzione scenica dell'illuminista francese da parte del Teatro drammatico di Varsavia

Dal nostro inviato

Venezia, 23 febbraio

Il Carnevale della Biennale e iniziato nel nome del veneziano conte Carlo Gozzi - l'avversario piu tenace ed aspro dell'altro "paron de casa" Carlo Goldoni di cui ascolteremo ben presto tre commedie - e dell'illuminista Denis Diderot. Sono appunto i nomi di Gozzi, Goldoni e Diderot quelli che piu ricorrono nel fitto, poliedrico, accavallantesi cartellone del Carnevale del teatro per il secondo anno organizzato da Maurizio Scaparro ma ormai costituente il momento culturale di una piu complessa e fantasmagorica macchina del divertimento che si allarga a spettacoli circensi, feste di piazza, sfilate di maschere, gran balii all'aperto, tenzoni agonistiche, improvvisazioni vere o presunte, risvolti mondani e popolareschi.

Davvero il nome di Carlo Gozzi, di primo acchito, appare il piu lontano possibile da quella linea ispiratrice che ha suggerito a Scaparro la sigla di "Carnevale della Ragione" ossia dell'Illuminismo settecentesco. Certo anche il socio della Accademia dei Granelleschi che non a caso era detto il Solitario appartiene al secolo dei lumi: ma del suo secolo il conte Carlo fu fustigatore irriducibile, ostile alla Ragione e alle sue illusioni, lucidamente presago dell'incombente sfascio, anche se forse inconsapevole della non lontana ghigliottina di Francia. Per di piu Giancarlo Cobelli nell'esumarela "Turandot" guarda alla fiaba orientaleggiante non per recuperare l'esotismo e il romanzesco del gioco deliberatamente fanciullesco eon cui l'autore volle controbattere la riforma goldoniana per dimostrare che a teatro si possono incantare i gonzi con ogni mezzo. Cobelli legge piuttosto la "Turandot" come un canovaccio funebre con cui Carlo Gozzi celebra la fine del suo Settecento ormai corrotto e fatiscente; e per di piu esaspera l'androfobia della protagonista, la sua incapacita di sottostare all'uomo, riducendo tutta la vicenda sotto il segno di una "diversita", alla lunga fastidiosa, che coinvolge eunuchi corpulenti, riduce le tradizionali maschere della commedia all'italiana a ministri e consiglieri lutulenti, insiste in una nudita esibizionistica, si compiace di trivialita gratuite.

Singolare e conturbante spettacolo dawero questa "Turandot" cobelliana: che ha momenti di indubbia suggestione nel rimando di un fiabesco Oriente immaginato da un settecentesco mai uscito dalle natie lagune, soluzioni ingegnosissime, ridondante fasto barocco, ma nel contempo insiste in atmosfere morbose, compiacenze scurrili, particolari sordidi, piu vicini al mondo del Divin Marchese De Sade che alla solare ingenuita della favola dei tre enigmi. Il senso del magico e presente nella scenografia suntuosa e immaginifica nonche nei costumi splendidi e ricchissimi, l'una e gli altri usciti dalla fantasia pirotecnica di Paolo Tommasi. Ma sembra davvero arduo collegare il funereo baccanale d'avvio in una casa patrizia veneziana alla metafora cinese, legare in qualche modo il pretesto fiabesco ad un lugubre rito di orgasmo e di morte, dove fanciulle ed efebi ignudi vengono scrutati e titillati da vecchi parrucconi dalie facce di teschio. Carlo Gozzi, per quanto conservatore, non puó essere immesso a cuor leggero tra una societa di morti, assatanata di sesso e di libidine: ne intruppato sull'opposto fronte dei libertari. Piu che nemico del suo secolo, egli ne fu semmai l'estremo difensore insieme aspro e cieco: e se pecco, peccó per eccesso di certezze in un mondo che ormai rotolava verso tutte le incertezze.

Il pansessualismo orgiastico di Cobelli consegue momenti indubbiamente inquietanti, ma si esaurisce in atmosfere malate, in troppa allusivita omosessuale, in un'insistenza monomaniacale fra il postribolare e il fatiscente, anche se alla fine l'amore, o meglio il puntiglio e l'orgoglio virile di Calaf si impongono nel cuore e nell'intelletto della misogina principessa cinese: o meglio anche se costei accetta infine per compagno l'unico maschio che le dia affidamento di non costringerla a "moglie soggetta all'uomo".

E' il giovanissimo e finora sconosciuto Andrea Cavatorta a calarsi in un principe Calaf di adeguata baldanza giovanile, freschi slanci di abbacinamento amoroso, cieca fiducia nella sua buona Stella, mentre Valeria Moriconi disegna con nitido segno la crudele e ambiziosa Turandot, figlia fin troppo vezzeggiata dal vecchio padre Altoum, incapace di rinunciare alla liberta "di cui ognun dovria disporre" e spinta al terrible decreto delle teste mozze a sacrificio dei non solutori degli enigmi, non per mera sete di sangue, ma per irriducibile avversione verso il prepotente sesso maschile. Sia nella cruciale scena degli indovinelli, quando via via si toglie le sovrapposte maschere; sia nei trasalimenti che per la prima volta la fanno ancora inconsciamente palpitare; sia nel finale abbandono sentimentale, la Moriconi e accortissima nel dosaggio dalla spietata affermazione di supremazia al conclusivo dolce affidarsi alla effusione dei sensi.

Attorno ai due protagonisti si muovono da un lato ii fedele e irriducibile Barach, aio e mentore del ramingo principe tartaro, ottimamente restituito da Ivo Garrani e il tapino vecchio Timot, padre di Calaf e spodestato re di Astrakan, impersonato da Riccardo Perucchetti. Sul versante piu propriamente cinese Antonio Pierfederici, che alla fine si libera dell'aurea aschera esotica per indossare abiti settecenteschi, e il mite e molle imperatore, padre di Turandot, mentre il Truffaldino dell'eccellente Ennio Goggia e il repellente capo degli eunuchi; il Brighella di Pierluigi Pagano risvolta nel sadico il maestro degli ignudi paggi; il Tartaglia di Mimmo Mignemi introduce una nota di partenopea lepidezza, e gli altri tutti - discinte schiave, immondi guardiani del Serraglio, efebi di ostentata virilita - contribuiscono al rimando di una visionaria Cina di decadenti rituali ossessi.

Nel teatrto che si intitola a Goldoni, il conte Carlo si e preso comunque provvisoria rivincita duefsecoli dopo: ma se la sua "Turandot" stenta ad iscriversi nell'idealizzato itinerario del "Carnevale della Ragione", a pieno diritto puó rivendicarne i titoli quel "Jacąues il fatalista" di Diderot che poche ore prima, nella settecentesca sala del Ridott, o gia frequentatissima da Casanova e dall'altrettanto accanito giocatore Goldoni, e stato portato alla ribalta nella trasposizione scenica del Teatro drammatico di Varsavia.

Quanto sia rimasto del filosofico "Dialogo viaggiante" fra Jacąues e il suo Padrone-Maestro nella riduzione peraltro simpaticissima di Witold Zatorski e problema soltanto in parte legato all'incomprensibilita delia lingua polacca da parte del vostro non poliglotta cronista. Qualsiasi traduzione, peraltro, di un'opera letteraria in una piece teatrale comporta inevitabilmente un'attenzione maggiore agli accadimenti esterni piu che alla sostanza letteraria del testo, con stravolgimenti talvolta intollerabili. Ma Zatorski, pur rinunciando ad uno "storico" che illustrasse i vari momenti della vicenda, ha tentato di cogliere lo spirito del celebre "romanzo senza fine", attuandone una trasposizione apparentemente infedele ma sostanzialmente fedele, per quanto tante fluviali pagine dialogiche possano essere condensate in due ore di spettacolo.

Delle tre direttrici su cui Diderot muove in "Jacques" - ossia il dialogo con il lettore, la parodia romanzesca e la discussione sul determinismo - il regista polacco e sembrato privilegiare la seconda, senza peraltro negarsi alle altre due. Ed ha vivificato i due tempi con garbatissime canzoni tratte da testi delio stesso autore, accompagnandole alle aggraziate musiche para-settecentesche di Stanisław Radwan. Rinunciando a qualsiasi suggestione scenografica - soltanto un alto palco sul fondo - e persino al recupero di costumi d'epoca, Zatorski ha affidato il dialogo fra il suo Socrate di strada e il suo Padrone - che tanto ricordano Sancho Panza e Don Chisciotte - a due notevolissimi interpreti come Zbigniew Zapasiewicz e Andrzej Szczepowski, quest'ultimo di irresistibile comunicativa.

Ma ha fornito soprattutto, questo allestimento di "Jacques", una controprova dell'eccellente preparazione collettiva che caratterizza i migliori gruppi dell'Est, con attori a cui si richiedono non soltanto quella che comunemente si chiama una "buona recitazione", ma altresi virtu acrobatiche, doti canore, perfezionismo professionale. E basterebbe citare per tutte la scena del conclusivo duello mortale fra ii Maestro e uno spadaccino rivale, eseguita con una verosimiglianza da autentica lezione di scherma. Ne si puó infine tacere la grazia maliziosa delle due uniche interpreti femminili, Magdalena Zawadzka e Malgorata Niemirska, quest'ultima in particolare una Maggie imparentata alla goldoniana Mirandolina.

Nella Venezia senza vaporetti, percorsa da ancor rari gruppi mascherati, ma gia consapevole delia "gran baldoria", si affaccia ora Goldoni con "I due gemelli veneziani", "La locandiera" e "La guera". E il conte Carlo Gozzi avra la risposta che si merita.

Pracownia

X
Nie jesteś zalogowany. Zaloguj się.
Trwa wyszukiwanie

Kafelki

Nakieruj na kafelki, aby zobaczyć ich opis.

Pracownia dostępna tylko na komputerach stacjonarnych.

Zasugeruj zmianę

x

Używamy plików cookies do celów technicznych i analitycznych. Akceptuję Więcej informacji